Una svolta pop

Per troppo tempo si è trattato di un inseguimento senza sosta, come se tutto ciò che era attuale fosse meno dignitoso: concetto che prima o poi porta ognuno di noi a idealizzare i trascorsi come fasti di passione dei quali ci sentiamo depositari. Poi, un giorno, si aprono alcuni spiragli, e la tendenza a biasimare tutto ciò che riguarda l’offerta del momento si mitiga; oltre s’intravede qualcosa, e si ritrova una posizione più onesta, sebbene non del tutto limpida.
Affronto questa riflessione sulla scorta di un vecchio film del regista Bruno Corbucci: Delitto sull’autostrada, interpretato da Thomas Milian e da una giovanissima Viola Valentino. Una comicità che oggi rivaluto con quella stessa malinconia che spesso mi ha fatto prediligere gli autori del passato, sperando di ritrovare un pezzo di quel tempo trascorso portandosi via le speranze che adesso fluttuano sospese in queste testimonianze.
Con reticenza cerco di accantonare la mia ipocrisia, per accettare il fatto che niente è cambiato in questo sentimento di ribellione, e certo non lo farà adesso che la giovinezza è rimasta in quei sogni che tali sono rimasti mentre l’avvenire è ormai quasi passato, come cantava Luigi Tenco. Tuttavia, ho spalancato il pensiero in questa visione scanzonata, per ritrovare in me un’indulgenza un po’ ruffiana perfino al cospetto di certe frivolezze. Così, ciò che prima mi divertiva nel contesto goliardico ˗ pubblicamente deriso per soddisfare il comune senso di appartenenza e poi di distinzione ˗ è divenuto il dramma dei bei tempi andati: la fine della spensieratezza, la nemesi dell’esser stati vivi.
Allora, ecco che un film dal dubbio valore diviene opera d’arte nel momento stesso in cui, trascorso il tempo necessario per allontanare la sensazione di vivere l’attimo, viene percepito alla stregua di un ricordo felice, anche quando la mente è ingannata dall’intenzionalità per una visione sopraggiunta molti anni dopo. E in quanto tale rivendico, salvo poi dover ammettere che si tratta di un disperato tentativo di restare nel qui e adesso, la mia appartenenza al presente attraverso qualcosa che non c’è più, per vincere la delusione di dover ammettere che non è sufficiente la volontà per restare attuali. Così, graffio il vetro dello specchio ma scopro che il decadimento è inevitabile, e altrettanto inevitabilmente mi chiedo se appartenere al momento non imponga di allontanarsi da sé stessi. Si è più anacronistici scadendo in atteggiamenti propri delle generazioni che ci hanno succeduti, oppure sdoganando una grottesca mitomania per quello che era il mondo quando giovani lo eravamo noi? Di fatto, la modernità ci precede. I cambiamenti ci sorprendono impreparati così come mi sorprende il sentimento di affetto che mi procura la visione di certe scene del film, per le quali un ragazzo di oggi subirebbe a malapena il fascino del turpiloquio, ma forse nemmeno più di tanto ormai…
Col tempo, il senso di frustrazione si è attenuato e sono diventato più indulgente verso i limiti (i miei) che adesso si mostrano senza offendermi, ma il peso resta immutabile e per quanto tenti di spostarlo, non potrò mai cancellare la sensazione di rifiuto disciolto nella razionalità, come una nube purpurea che permane nei gangli in attesa di attivare senza preavviso l’istinto al pregiudizio che fruga nel passato alla ricerca delle impronte di una salvezza mancata. Quando in una scena ormai epica del film, Anna Danti canta ammiccando al commissario Nico Giraldi reso umano dall’amore che sente nascere in sé per la ragazza, fiorisce in me il dolore per quel fuoco ormai spento che la musica è in grado di evocare, e non mi resta altro da fare che riconoscere quanto il rifiuto dell’offerta attuale non sia altro che il bisogno, innocente e perverso, di sopravvivere nell’adesso oltre ogni mutazione culturale poiché come recita la canzone: “Soffia un’aria nuova, passa il tempo ma… ti aspetto ancora”.

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