Annichilimento del linguaggio estetico
(discorso sul limite sfuggente tra interpretazione e intuizione)
a cura di Esther Basile – Ed. Homo Scrivens
Se immaginassimo di voler rappresentare il pensiero, nella sua forma svincolata dalla volontà anche quando condizionata dal retaggio personale, per prima cosa dovremmo riconoscere il meccanismo attraverso il quale talune sensazioni tendono a prevalere: da cosa sono influenzate? Quale meccanismo le determina?
Più che un valore conoscitivo, l’atto di cercare un legame tra diversi saperi sublima se stesso nel valore esplorativo che lo contiene. Oltre al piacere della scoperta, al fremito provocato da una rivelazione che si spalanca davanti ai nostri occhi, c’è il merito del confronto che, nella riflessione, smuove l’intelletto producendo talvolta qualcosa di nuovo, mai pensato, qualcosa in grado di mostrarsi grazie all’osservatore che a suo modo percepisce ed elabora la riflessione. Unico dunque il suo valore che, per quanto “influenzato” in termini d’induzione (anche quando non ricercata), stabilisce la genesi di qualcosa che prima non esisteva, perfino nell’evidenza d’esser già stato pensato da altri. Di fatto, il ri-conoscersi nel pensiero altrui, rappresenta un dato oggettivamente unico e, per quanto le nostre deduzioni possano collidere con quelle di altri, sono i fattori che le determinano a rendere unica perfino la medesima conclusione.
Con questa premessa introduttiva manifesto l’intenzione di mostrare un percorso del ragionamento, restituendogli forza come parte fondamentale e necessaria non soltanto per la comprensione logica, ma anche quale manifesta virtù del pensiero che attraverso di essa esibisce la propria esclusività. Ogni istinto alla vita non può limitarsi a una reazione dell’Ente che sopravvive, ma può – e necessariamente deve – passare attraverso la ricerca perfino quando questa si dimostra fallimentare come un perpetuo errore che la contiene. Non è affatto raro dunque che si manifestino variazioni più o meno evidenti del gusto estetico, anche se sarebbe più appropriato codificare tali cambiamenti come vere e proprie “evoluzioni” che non sostituiscono ciò che le ha precedute bensì le perfezionano in qualcosa che, paradossalmente, potrebbe apparire come un ritorno e non come un passo successivo. Tuttavia, anziché giungere a qualcosa di definitivo, si tratta di un transitare attraverso, avventurandosi nella nube di un ragionamento decisionale riflettuto e allo stesso tempo riflettente un movimento dell’intelletto che, sebbene non possa dirsi l’unico, comprende tutte le peculiarità di un meccanismo il quale conduce in luoghi non necessariamente prossimi tra loro, senza per questo scalfire l’essenza del movimento medesimo.
Se ammettiamo la riflessione come un fluido, che si deforma sotto l’influenza di informazioni veicolate attraverso una rete sinaptica imprevedibile, trova senso il divagare senza schemi in modo tale che il risultato finale possa assumere aspetti non predefiniti. Un metodo meno logico, che ci permette però di addurre ragionamenti i quali, per quanto non predeterminati, sono in grado di rappresentare quello che di solito avviene a livello di subconscio. Partirò da alcuni concetti espressi da Ludwig Wittgenstein, filosofo conosciuto principalmente per due opere in seno alla sua volontà: il Tractatus Logicus Philosophicus e le Ricerche Filosofiche. Il Tractatus è un testo caratterizzato da sette proposizioni che potremmo definire “radice”, dalle quali derivano altre proposizioni le quali seguono una numerazione che collega ed esplicita le precedenti (1; 1.1; 1.1.2… etc.). Un’opera che, seppur breve come si conviene alla risolutezza, già dalla struttura mostra la propria complessità. Le Ricerche al contrario, sebbene sia stato pubblicato postumo e non possiamo sapere quanto della forma attuale sia fedele alle intenzioni dell’autore, si compone di osservazioni progressive attraverso le quali il Filosofo tenta di mettere in luce gli errori commessi nella sua opera precedente. Per quanto possa essere interessante conoscere la distanza temporale che separa i due lavori e le motivazioni che hanno indotto Wittgenstein a confutare gran parte di quello che egli stesso aveva ritenuto definitivo (almeno dal punto di vista della logica del linguaggio), in questo caso ci limiteremo a citare l’ultima delle sette proposizioni del Tractatus, l’unica che non contenga derivate: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Se volessimo dar credito alle motivazioni di tale proposizione, mossi da una cieca fiducia nelle deduzioni del Filosofo, questo articolo si troverebbe di fronte un ostacolo insormontabile. D’altro canto, lo stesso Wittgenstein attraverso i documenti raccolti dai propri allievi, sosteneva che l’apprendimento delle regole modifica il nostro giudizio rendendolo più raffinato e pertanto, sebbene la proposizione numero sette appaia definitiva al pari di una regola inviolabile, il libero pensiero dimostra come sia sempre possibile trovare nuove regole in grado di perfezionare le precedenti, perfino attraverso la confutazione delle stesse o più facilmente di se stesse. Lo Stato Estetico, nell’interpretazione nietzschiana stavolta, definisce l’arte come lo stimolante in grado di eccitare l’Ente attraverso l’aumento di entropia la cui trasmissione avviene, almeno all’apparenza, senza la necessità di un tramite. Più precisamente nel transito tra Opera e Osservatore non vi sono mezzi di trasporto tali da giustificare una determinata manifestazione fisica. A tal proposito, prima di tentare l’analisi di un recepimento probabile, è doveroso quanto necessario soffermarsi sul concetto di Nulla, argomento che la scienza liquida con una certa facilità (e giustamente aggiungerei), in quanto oggetto indimostrabile sperimentalmente; qualcosa che, come recita appunto la proposizione numero sette, non si conosce e del quale non si dovrebbe parlare. Ma cos’è questo qualcosa che, per dirlo con le parole di Sartre: si manifesta a me che l’intenziono?
Sono molti i filosofi che hanno tentato d’interrogarsi in tal senso. Il primo è senz’altro Parmenide che 2500 anni fa sosteneva come il non essere non è ed è necessario che non sia, ma la concezione del Nulla ha assunto di volta in volta forme diverse. Hegel potrebbe essere considerato il primo, prima ancora di Sartre o qualsiasi esistenzialista che abbia fatto del nichilismo un cardine filosofico, ma il Sofista ha prodotto a mio dire un concetto che tende a fagocitare se stesso in un modo che gli impedisce di affermarsi completamente. Posto che non fosse questa la sua intenzione, ovvero l’annichilimento del concetto in quanto generante altresì qualcosa che meglio di altro sembrerebbe rappresentarlo, è certamente Heidegger che, rilevando in modo chiaro il nonsenso che si crea parlandone, mostra quanto il fatto d’interrogarsi sul non-essere fa sì che Io lo rappresenti come Ente per ragioni di logica deduttiva. Dunque, intenzionandolo, lo manifesto e l’atto di pensarlo, pur nella contraddizione generata, fa slittare il non-essere nell’essere stesso, il non esistere nell’esistere e così via… Nonostante ciò, Heidegger riconosceva al Nulla un’originalità anteriore alla negazione stessa, qualcosa di inafferrabile, la cui luce antica mai perviene all’uomo che utilizza la negazione quale mezzo antimaterico della realtà, non tanto con l’intento di annientarla, quanto di darle rilievo.
Esiste pertanto, a mio dire, uno sbilanciamento tale che non può esservi annullamento. In questo lo stato estetico può aiutare se vogliamo a intuire quanto perfino il non parlare di qualcosa che non si conosce, in alcun modo può impedire alla coscienza di generare un certo tipo di energia che, in termini scientifici, va contro il Primo Principio della Termodinamica secondo il quale nulla si crea né si distrugge, ma si trasforma. Pur trattandosi di mera speculazione metafisica (è giusto sottolinearlo), è innegabile che l’arte, presa in questo caso a esempio ma potremmo parlare di sentimenti in genere, pur attraverso la stimolazione di livelli energetici preacquisti e sospesi in noi tra le briglie della memoria, avvicina la percezione che abbiamo di una determinata opera più al concetto sartriano di un nulla che dal nulla si crea attraverso me, che a qualcosa del quale non possiamo davvero parlare come per Wittgenstein.
L’apprezzamento soggettivo tende a modificarsi con il passare del tempo, ma in un modo che più che un cambiamento si manifesta in un movimento fluido il quale si modifica per poi ritornare alla forma iniziale della sua essenza primigenia. Capita più o meno a tutti di veder mutare il proprio gusto estetico, non solo per ciò che concerne un’opera pittorica ma in qualcosa d’estendibile a tutti quei campi entro i quali riteniamo plausibile comprendere tale definizione: pittura, letteratura, scienze… Tale mutamento, progressivo in termini temporali, sembra più evidente in quei soggetti spinti da una curiosità determinata; se esiste un limite pertanto esso non risiede nei mezzi intellettivi (non sempre almeno), quanto piuttosto nella volontà di penetrare e conseguentemente modificare il riconoscimento di ciò che ci circonda. Un progresso che non affonda le proprie radici soltanto nell’ampliamento degli orizzonti culturali, quanto nella capacità di ri-conoscere questo movimento. Chiudere il pensiero rappresenta, invece, un limite che mette in luce la prevalenza della logica insita in quella realtà che riteniamo riconoscibile.
I recenti studi in campo cognitivo tentano di dimostrare la natura multipla dell’intelligenza, scardinando la precedente convinzione che invece la comprende in un concetto globale senza distinzioni. In questo Noam Chomscky è stato forse il precursore, nondimeno va ricordato il prezioso lavoro svolto Haward Gardner il quale fa una netta distinzione di tale molteplicità suddividendola in: musicale, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, personale, interpersonale e linguistica. Istintivamente siamo portati a considerare eccellenze in campo musicale, scientifico, artistico e sportivo, come talenti lontani dalla persona comune, dai più tra noi per intendersi, mentre determinate e indiscusse capacità linguistiche sono percepite alla stregua di esultanze artefatte di qualcosa di accessibile o quantomeno somministrabile. Io corro, eppure mi stupisco della velocità di un campione più di quanto mi meravigli leggendo un poema ingegnoso (in senso generale s’intende), scritto da qualcuno che dimostra di possedere una dote a noi preclusa di tale caratteristica, perfino quando il nostro scrivere rappresenta – nel paragone – la corsetta di un uomo appesantito al cospetto del centometrista.
L’inafferrabile, l’incomprensibile, perfino l’impensabile pongono fin da subito una barriera che solo e soltanto una certa disposizione linguistico-spaziale sembrerebbe in grado di scardinare e più si abbassa tale condizione, maggiore sarà il distacco dall’argomento ma, se davanti alla possibilità di comprendere una certa teoria, o compiere un determinato movimento corporeo, subentra la rassegnazione data dall’impossibilità di emulazione, nei confronti di un testo splendente la “sottomissione” tende a mostrare un limite dell’Umano che, sentendosi partecipe della medesima materia, cerca il riscatto della propria condizione. Si tratta, ovviamente, di un grave errore che ha portato non solo all’impoverimento della lingua ma anche a conseguenze ben più disastrose che hanno reso empatico il colloquio povero poiché facilmente comprensibile. La demagogia si basa proprio su questo, sull’imprimere le idee attraverso in meccanismo dell’immediatamente assimilato che annienta la facoltà naturale nell’Ente di sviluppare (e sfruttare) tale intelligenza elaborando un pensiero proprio, mettendo a frutto quello che è il potenziale reso irriconoscibile dall’inquinamento pervasivo della povertà intellettuale sulla quale ci siamo adagiati. Paradossalmente, quella tra le “intelligenze” indicate da Gardner che risulta a conti fatti la più ignorata o riconosciuta, è anche quella che veicola e determina lo sviluppo di tutte le altre, come se l’ultimo tassello fosse in realtà la cornice. Frequentando le lezioni del poeta americano Robert Lowell, fondatore della corrente poetica Confessionale, Helen Vender si esprimeva così: “Ci si sentiva come una forma evolutiva piuttosto arretrata di fronte a una specie sconosciuta ma superiore”. L’affermazione della Vender pone l’accento su un tipo di eccellenza molto spesso sottovalutata in quanto priva all’apparenza di implicazioni pratiche. Tuttavia, come afferma Thomas Elliot: “l’organizzazione delle immagini esige altrettanto lavoro cerebrale quanto l’organizzazione di un ragionamento” e da ciò la precedente riflessione per cui l’unico veicolo determinante, qualsiasi sia il campo d’apprendimento, risulta essere quello linguistico.
Gli eroi cambiano nel corso della nostra vita. Crescono con noi, invecchiano e talvolta svaniscono. Penso a un atleta, ma anche a uno scrittore nei cui testi finiamo per non riconoscerci più, pur restando attaccati all’affetto per ciò che siamo stati. Il gusto si evolve, tuttavia alcuni di essi sono capaci di elevarsi ed elevarci al punto che l’apprezzamento rimane immutato. Difficile se non siamo davanti all’oggettività di un dato come avviene per la scienza: la percezione stessa delle cose e il potere dell’opera inquadrata in un preciso periodo stenta a seguire l’evolversi della coscienza personale. Spesso sono anche i singoli destini che spostano l’attenzione privilegiando l’uno o l’altro, ma in certi casi il valore persuasivo si mantiene immutato ed è lì, nel Classico diciamo, che si manifesta l’osservazione di Elliot, nella realizzazione di ciò che istintivamente proviamo per la materia e sembra invece svanire in quella linguistica. I capisaldi pertanto, nella scienza come nell’arte o nello sport, si imprimono in noi e lo stesso avviene per determinate eccezioni dell’ingegno linguistico, sebbene il più delle volte ciò avvenga senza clamori. Se la “svolta” nel pensiero è data da queste increspature storicamente riconosciute quindi, le stesse devono per forza avere la medesima natura di una sensazionale scoperta ed è questa una cosa nota agli scienziati che non mancano mai di accostare la propria ricerca all’indagine ontologica.
Ritenendo verosimile che ciò avvenga nel linguaggio – e solo in questo caso – possiamo allora tentare una riflessione che mostri un limite difficilmente riconoscibile: l’annichilimento concettuale che si genera dal confronto tra la lettura di un testo e la contemplazione di un’opera d’arte. Se prendessimo un dipinto che ci colpisce per l’impeccabile manifattura e tentassimo di associarlo a un testo letterario (in termini di struttura riconosciuta), nel ragionamento costruito saremmo portati ad accostare il manufatto a un’opera letteraria dal linguaggio complesso, qualcosa che non tanto nel recepimento quanto nell’accostamento intendiamo di difficile realizzazione. Tuttavia, il dipinto, pur nella sua complessità simbolica, realizzativa o anche solo compositiva, ci perviene come qualcosa di immediatamente riconoscibile, qualcosa che il libero pensiero, appunto non predeterminato come dicevamo all’inizio, guida la nostra intuizione nell’immediatamente riconoscibile. Lo stesso paragone potremmo farlo in senso inverso con un opera concettuale d’arte moderna, un Achrome di Piero Manzoni per esempio che, nella sua apparente semplicità realizzativa, priva di virtuosismi tali da lasciarci a bocca aperta, nel ragionamento pensato saremmo indotti ad associare a un testo immediatamente riconoscibile per la sua apparente semplicità linguistica, ma che invece il libero pensiero decontaminato sente come qualcosa d’indecifrabile nell’immediato e tale da richiedere un certo sforzo di comprensione. La logica del linguaggio istintivo che si contrappone al ragionamento meditato dunque, creano l’inganno al quale siamo costantemente assuefatti. La mente tende a invertire la comprensione dell’istinto sul ragionamento, laddove la complessità della sua composizione ci stupisce per effetto delle suggestioni ricevute, ed è per questo che ammirando un’opera d’arte concettuale l’opera letteraria diviene immediatamente riconoscibile, attraverso un linguaggio che di fatto si lascia codificare senza sforzo, mentre avviene l’esatto contrario nei confronti di un’opera che mostra capacità non comuni di manifattura, inducendo una falsa percezione dell’essere sul non essere, tale da rendere il Nulla essente in un modo che annichilisce appunto la realtà della sua non essenza.
Sebbene possa sembrare quest’ultimo un ragionamento contorto (e di fatto lo è), più che di annichilimento dovremmo parlare quindi di annullamento del linguaggio estetico. La diffidenza con la quale spesso ci avviciniamo all’arte contemporanea proviene forse da questa negazione dell’intuito che, attraverso il ragionamento, un ragionamento il più delle volte di superficie, non perfeziona la propria ricerca poiché sempre e comunque dev’essere sbrogliato in un tempo assai breve. Se però lasciamo depositare la riflessione il tempo necessario perché quest’ultima acquisti consistenza, allora saremo in grado di scoprire le meraviglie che un’opera d’avanguardia contiene, pur non essendo queste esibite ma contenute nel suo realizzatore e per estensione in noi stessi. Il concetto, nell’arte come in letteratura, assume forme variabili che non si annullano ma certamente si compensano e talvolta si perfezionano a vicenda. Non ha senso dunque mettere in paragone opere così distanti tra loro per carico rappresentativo in quanto, tolto il supporto sul quale esse si realizzano, esprimo due modi completamente diversi di manifestare la coscienza. Non c’è annichilimento tra le due, ma solo una diversa esibizione intrinseca ed estrinseca della sensibilità che si manifesta nella non prevaricazione dell’una sull’altra. È per questo che davanti a un quadro completamente bianco, il cui unico vezzo è rappresentato dalle impercettibili increspature della tela o da qualche rilievo che perfora la terza dimensione in un modo altresì garantito dall’abilità del pittore di sfumare il pigmento, oltre il ragionamento meditato l’istinto scuote l’animo, e sarà qui che dovremo focalizzare la nostra attenzione, non tanto in quel Nulla che si genera per il solo fatto di essere pensato, ma in qualcosa che non è ed è necessario che non sia per permettere invece che esista un Noi, anche quando ci troviamo soli davanti al Nulla.
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